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Psicopatologia della Rete

Psicopatologia della Rete

Oltre alle tante cose positive, Internet ci ha portato una serie di nuovi disturbi e psicosi, e ha fatto assumere nuove vesti a problemi ben noti. Approfondiamo origine e sviluppo di sindromi come il NOMO, il FOMO, l’hikikomori, la dipendenza da videogame, e di disturbi curiosi come la “sindrome da vibrazione fantasma” o la “ipersensibilità al wi-fi” asserita da alcuni individui.

Data di pubblicazione: 04 settembre 2019

Riuscireste a immaginare la vostra vita senza Internet? Difficile, molto difficile. Eppure, la Grande Rete è entrata nella nostra esistenza di recente. In Italia, le prime connessioni risalgono alla metà degli anni ‘90.

Nel giro di un quarto di secolo la tecnologia della rete digitale è diventata totalmente pervasiva, risultando una delle invenzioni più veloci a raggiungere una diffusione di massa, molto più rapidamente di apparecchi quali il telefono, la radio, la televisione o il fax. Oggi si calcola che circa metà della popolazione mondiale sia online.

Il fatto di essere fondamentalmente un “media”, cioè un contenitore, un mezzo per veicolare vari tipi di contenuti, ha sicuramente favorito la sua veloce diffusione, alimentata dalle idee di molti visionari che hanno “vestito” la struttura con tecnologie quali il Web, la messaggistica, i motori di ricerca, i social media. Ma questa pervasività ha cominciato a portare, negli ultimi anni, qualche problema in alcune persone.

Sindrome da Internet

Se Internet è fondamentalmente un vettore “neutro”, quindi difficilmente incolpabile di alcunché, il discorso è diverso quando prendiamo in esame le sue varie applicazioni. Quelle più usate oggi sono sicuramente i social network, come Facebook, Instagram e via discorrendo. Solo Facebook, per esempio, ha circa 30 milioni di utenti in Italia (su 60 milioni di abitanti). Ma anche altre applicazioni di Internet vengono chiamate in causa quando si parla di uno dei principali disturbi psicologici legati a Internet: la IAD, Internet Addiction Disorder o, in italiano, Disturbo da Dipendenza dalla Rete. Mettiamo subito in chiaro che non stiamo parlando di persone che usano Internet molte ore al giorno per lavoro o per necessità. In quel caso, infatti, non siamo in presenza di una dipendenza psicologica. La IAD riguarda in realtà una piccola percentuale di persone, probabilmente meno del 10% degli utenti – ma essendo moltissimi coloro che navigano, il fenomeno ha dimensioni rimarchevoli. Bisogna anche dire che la maggior parte delle persone con IAD ne soffrono in forme leggere. Lo psicologo Jerald J. Block classifica 4 tipiche sintomatologie per l’IAD: la prima è l’uso eccessivo associato alla perdita della cognizione del tempo, che finisce per far trascurare i bisogni fondamentali come nutrirsi e dormire; la seconda è la chiusura verso l’esterno, con sentimenti di rabbia, tensione, depressione quando la connessione non è accessibile; terza sintomatologia è la persistenza, con richieste di nuove dotazioni tecnologiche, software migliorati, e più tempo per stare al computer; la quarta infine riguarda le ripercussioni negative, come i frequenti litigi con i familiari, la facilità nel mentire, una ridotta produttività professionale o scolastica, l’isolamento sociale, la stanchezza.

Se il caso è davvero grave, si riscontra la presenza di tutte le quattro sintomatologie, e si arriva a un quadro complessivo di tipo depressivo, frequente in particolare fra gli adolescenti. Tuttavia, un quadro di questa gravità è davvero poco frequente e più comunemente i disturbi sono limitati e inquadrabili in una diagnosi di stress, spesso definito “tecnostress”.

A oggi, gli psicologi classificano le dipendenze da Internet in 5 sottocategorie principali. La più nota è probabilmente la Dipendenza cybersessuale, ovvero il consumo smodato e compulsivo di pornografia sulla Rete, con il soggetto che passa il tempo a guardare, scaricare, o acquistare pornografia dai siti Web.

Appena dietro c’è la cosiddetta “Dipendenza cyber-relazionale”, che riguarda quelle persone che diventano dipendenti da relazioni affettive nate e sviluppate in Rete, le quali diventano preponderanti rispetto a quelle della vita reale, fino a sostituirsi a queste ultime, con ovvie conseguenze sulla vita familiare e sulla stabilità dei legami. Questa dipendenza riguarda soprattutto frequentatori di chat room e di social network. Una terza dipendenza riguarda la cosiddetta “Net Compulsion”, ovvero comportamenti di tipo compulsivo, e comprende fenomeni come lo shopping online, il trading, e soprattutto il gioco d’azzardo. In quest’ultimo caso, siamo probabilmente di fronte a soggetti che già soffrono di ludopatia, in cui Internet ha avuto un ruolo di “facilitatore” nel far emergere il problema. Le ultime due categorie sono l’“Information Overload”, fenomeno per cui un soggetto tende a passare ore su Internet alla ricerca di informazioni, non in modo mirato, ma seguendo per così dire “l’onda” della navigazione: si passa per ore da un video a un sito, da un dettaglio a un motore di ricerca e di qui ad altri video e immagini e così via, in un surfing senza fine; e la “Gaming Addiction”, in cui il soggetto sviluppa una ossessione per i giochi online fino a divenirne dipendente. Quest’ultima appare essere una dipendenza in netta crescita, soprattutto con la diffusione di una nuova categoria di giochi che combinano l’aspetto ludico con quello “social”, spingendo i giocatori a collegarsi fra loro, a formare squadre, creando tessuti social gratificanti dai quali è difficile staccarsi.

Troppo social

Parlando di IAD, abbiamo già nominato parecchie volte i social network, che sembrano essere fra i principali responsabili di alcuni disturbi diffusi prevalentemente fra i più giovani – adolescenti in particolare – che notoriamente sono grandi utenti di queste applicazioni.

Per quelli che definiamo “nativi digitali”, non c’è una netta separazione fra la propria vita “reale” e il proprio profilo sui social network preferiti. E questo è logico, visto che comunque i social sono il mezzo tramite il quale tengono i contatti anche con amici e compagni di scuola, e sono quindi parte integrante delle loro vite. Con l’arrivo degli smartphone, poi, la pervasività della Rete è diventata totale e le residue barriere fra vita reale e vita virtuale sono state rimosse: lo smartphone permette di essere sempre presenti all’interno di quella realtà aumentata che è il mondo social. Ebbene, proprio questa continuità della presenza in Rete creata dal complesso di tecnologie Social+Internet+rete – cellulare+smartphone è alla base di almeno due categorie di disturbi che affliggono gli adolescenti (ma in forma magari meno invasiva riguarda persone di tutte le età).

La prima è la sindrome NO.MO. La sigla sta per No Mobile Fobia, e colpisce chi si ritrova improvvisamente senza connessione alla Rete, per esempio perché si trova in una zona non coperta dal servizio, perché ha finito i Gigabyte di traffico mensile, o più banalmente perché gli si è scaricata la batteria del cellulare. Questa sindrome crea sintomi che vanno da uno stato d’ansia all’attacco di panico vero e proprio, con tremori e tachicardia. Se i sintomi più gravi riguardano come sempre una minima percentuale di soggetti, uno studio inglese ha calcolato che circa il 53% degli utenti di smartphone entrano in ansia se si trova a corto di batteria, di credito o in zone senza campo. Se siete di quelli che non mollano il cellulare nemmeno per andare in bagno, sappiate che probabilmente soffrite – magari in forma leggera – di questa sindrome.

Collegata alla NO.MO è anche un’altra sindrome dal nome simile: FOMO, che è acronimo di “Fear of Missing Out” ovvero paura di perdere qualcosa. Chi ne soffre ha paura che, nel momento in cui restasse scollegato dal social network, potrebbero succedere all’interno dei gruppi che frequenta degli avvenimenti molto importanti da cui egli sarà irrimediabilmente tagliato fuori. Si tratta, in un certo senso, della versione moderna della paura di essere estromessi dal “gruppo” che è sempre stata la principale paura degli adolescenti, in particolare di quelli con bassa autostima. Stranamente, nella versione “digitale” questa sindrome miete più vittime fra i maschi che fra le femmine. La sindrome ha come immediata conseguenza un incremento esponenziale dell’uso dei social da parte dell’adolescente, che comincia a connettersi al mattino appena sveglio, a scuola distraendosi dalle lezioni, durante i pasti e anche di notte invece di dormire. Agli stadi più gravi, si cominciano a notare peggioramento dei risultati scolastici, deterioramento dei rapporti familiari, e i disturbi tipici della mancanza di sonno. Il problema vero, però, è che quando si notano questi sintomi spesso si interviene togliendo lo smartphone al ragazzo: si tratta della reazione peggiore possibile, perché il ragazzo tipicamente entra in conflitto e a volte sviluppa vere e proprie crisi di astinenza. In questi casi, è molto meglio avvalersi del supporto di uno psicologo per ricreare l’autostima nel soggetto, riducendo il suo bisogno di rifugiarsi nei social e consentendogli di reimpostare il suo rapporto con la tecnologia in modo più equilibrato.

Hikikomori, l’autoesclusione dal mondo

Molto spesso, fra le forme di dipendenza da Internet viene incluso anche l’hikikomori, parola giapponese che letteralmente vuol dire “stare per conto proprio”. Chi soffre di hikikomori, in grande maggioranza adolescenti, si chiude nella propria stanza trasformandola in una sorta di fortezza/prigione e non ne vuole uscire per nessun motivo. Chi è in questa condizione smette di frequentare la scuola e gli amici e passa le sue giornate chiuso nella stanza – spesso consuma lì anche i pasti.

Tuttavia, non è assolutamente detto che chi soffre di hikikomori sia malato di IAD: anzi, di solito il fattore scatenante è la paura o il rifiuto del mondo esterno e di tutti i rapporti sociali che esso comporta, per cui molti hikikomori non usano nemmeno Internet o lo smartphone. E a conferma di ciò, il fenomeno emerse in Giappone durante gli anni ‘80, quando Internet non era ancora nemmeno utilizzabile all’infuori di un ristretto numero di laboratori universitari. Altri hikikomori invece temono solo l’interazione diretta con le persone, il rapporto faccia a faccia, e quindi dal chiuso delle loro stanze usano i social per interagire in modo, diciamo così, filtrato. Secondo alcuni studi comunque, solo il 30% degli hikikomori usa Internet e spesso solo come passatempo o come mezzo di evasione. Alla stregua del televisore usato per guardare film o serie di telefilm. Fra i pochi hikikomori che usano Internet, tuttavia, è molto alta la percentuale di persone con IAD. Il motivo è abbastanza ovvio: se Internet rappresenta l’unica loro forma di contatto con il mondo, contatto che in forma diretta li terrorizza, ma al quale aspirano in forma mediata, essi saranno naturalmente portati a comprimere su quel canale di comunicazione tutta la loro voglia di contatto umano e sociale, diventando quindi forzatamente dipendenti da esso.

Malati immaginari?

Dopo questo excursus su sindromi potenzialmente gravi, che nelle loro forme più critiche provocano seri problemi alla vita sociale delle persone, finiamo con una nota più leggera grazie a un curioso disturbo che ha preso piede negli ultimi anni e che si è diffuso a macchia d’olio, tanto che secondo molti studi colpisce la maggior parte degli utenti di smartphone: la sindrome da vibrazione fantasma (Phantom Vibration Syndrome). Sarà sicuramente capitato anche a voi di sentir vibrare il telefono e di guardare lo schermo alla ricerca della notifica… per scoprire che non è arrivato nulla e che la vibrazione l’avete solo immaginata.

Nonostante il fenomeno sia così diffuso, non c’è ancora nessuna certezza sulle cause. Secondo alcuni scienziati, si tratta di una percezione errata da parte del cervello dei segnali che gli arrivano dai nostri sensi, dovuta all’uso di tecnologie vibranti a stretto contatto con il corpo. In qualche modo, il cervello ha modificato la sua soglia di percezione verso le vibrazioni e così gli capita di confondere con la vibrazione quelle che in realtà sono semplicemente piccole contrazioni e spasmi muscolari ritmici. Il fenomeno dovrebbe essere quindi simile a quello che ci permette di sentire distintamente se qualcuno ci chiama per nome nel fracasso di una festa, o viceversa ci lascia dormire se nel silenzio della notte passa un’ambulanza a sirene spiegate, ma ci fa svegliare se sentiamo un rumore anche flebile che arriva dalla stanza del bambino. In tutti questi casi, il cervello riceve gli stimoli sensoriali, li analizza e decide se meritano l’attenzione della nostra “parte cosciente” o meno. Il meccanismo funziona anche con le vibrazioni, ma per qualche motivo non è preciso. Fra parentesi, segnaliamo che se oggi molti segnalano “vibrazioni fantasma” dal cellulare, nei lontani anni ‘90 molti americani soffrivano di un disturbo simile che riguardava il “bip bip” emesso dai cercapersone. L’incertezza sulle cause purtroppo porta anche all’incertezza sulle cure. C’è chi propone di cambiare di posto al telefono, e comunque di staccarlo dal corpo, magari tenendolo in borsa o nella 24ore; altri consigliano di ignorare semplicemente la vibrazione fantasma, resistendo all’impulso di controllare immediatamente l’eventuale notifica. Si rischia di non leggere immediatamente qualche messaggio, ma magari si riesce a ridurre l’ansia. E come ultima risorsa, c’è chi propone di… combattere la tecnologia con altra tecnologia: affiancare uno smartwatch al telefono potrebbe risolvere il problema, perché la vibrazione dell’apparecchio portato al polso è molto più forte di quella del cellulare e perfettamente identificabile. E vi basterà un’occhiata al polso per leggere la notifica e stare tranquilli.

L’autore

Gianluigi Bonanomi

Giornalista professionsita, con expertise in ambito technology e digital.

Bibliografia

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