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Malattie digitali, vere e… presunte

Malattie digitali, vere e… presunte

Abbiamo tessuto varie volte le lodi alle tecnologie digitali. Ma non possiamo nasconderci che esse, a volte, presentano delle controindicazioni, dei rischi che possono sfociare in vere e proprie malattie. Quali sono? Sono frequenti? Sono gravi? Sono reali? Facciamo il punto, allo stato attuale delle conoscenze.

Data di pubblicazione: 07 giugno 2019

A memoria d’uomo, non è mai successo che l’introduzione di una nuova tecnologia abbia portato solo vantaggi. Qualche problema c’è sempre stato, ma in genere lo si è sempre accettato come “dolorosa necessità” a fronte degli enormi vantaggi conseguiti. Certo, c’è stato chi nell’800 aveva proposto di vietare l’appena scoperta energia elettrica, perché qualche utente disattento poteva restare fulminato. Ma la proposta cadde nel vuoto, così come quella di coloro che, all’inizio del XX secolo, volevano proibire le “carrozze senza cavalli” a causa della loro (perdurante) propensione a provocare morti e feriti fra guidatori, passeggeri e passanti. Diciamo subito che, a confronto di svantaggi di questo tipo, quelli portati dal digitale hanno in genere un livello di gravità ben più basso e un numero di vittime nettamente inferiore. Ma poco grave non equivale a innocuo e numero inferiore non è esattamente zero. Eccoci quindi qui, nell’insolita veste di luddisti, a sottolineare i pericoli del digitale e per una volta non a magnificarne le doti taumaturgiche, bensì a puntare il dito sui problemi di salute che l’utilizzo scorretto o eccessivo delle tecnologie informatiche possono provocare.

I mali del corpo

Il computer fa male al fisico? Sì, è assolutamente possibile. I problemi più comuni sono quelli causati da una scorretta postura durante l’utilizzo. Una postazione di lavoro fissa deve essere organizzata secondo regole molto precise, che riguardano l’altezza da terra della seduta e del piano di lavoro, la forma dello schienale, e soprattutto la posizione relativa di tastiera, monitor e mouse. Per esempio, basta solo che il monitor sia posizionato lateralmente invece che frontalmente all’operatore, per indurre, nel giro di poche settimane, i primi problemi muscolari. Nel caso di un fisico ancora in crescita, come quello di uno studente, si possono produrre danni difficilmente recuperabili. Anche le modalità d’uso del computer e delle periferiche possono creare problemi. Per esempio i mouse di vecchio tipo, che obbligavano l’utente a lavorare con il polso piegato verso l’alto, se usati per molte ore provocavano facilmente disturbi come la “sindrome del tunnel carpale”, una dolorosa infiammazione della guaina che fascia i tendini del polso. Il disturbo era fortemente inabilitante, in quanto il dolore arriva a impedire di eseguire qualsiasi movimento del polso. L’incidenza di questo disturbo si è ridotta con l’arrivo di mouse più ergonomici, da usare con il polso parallelo al piano della scrivania, ma chi usa workstation di vecchio tipo o adotta “prese” scorrette per il mouse rimane a rischio.

Un altro organo a rischio è sicuramente l’occhio. Fortunatamente, i vecchi monitor a tubo catodico sono ormai andati in pensione quasi ovunque e questo ha ridotto i problemi di vista dovuti allo sfarfallamento e all’instabilità dell’immagine (oltre a quelli, ipotizzati ma mai provati, dovuti all’esposizione alle radiazioni ionizzanti emesse dal tubo). Tuttavia, i monitor LCD che li hanno sostituiti non sono totalmente esenti da difetti. In particolare, molti studi condotti negli ultimi anni fanno ritenere che le emissioni di luce di colore blu abbiano potenzialmente effetti negativi sulla retina. Le onde che costituiscono la luce visibile, infatti, hanno diverse capacità di penetrazione nei tessuti, minima per il rosso e massima per il blu. E si dà il caso che gli schermi LCD emettano una grande quantità di luce blu. Ora, alcuni scienziati hanno osservato come la luce blu può “eccitare” oltremisura una molecola presente nella retina, l’11-cis retinale, e il suo fotoprodotto Atr, facendo sì che queste molecole vadano ad alterare irreversibilmente un componente della membrana plasmatica delle cellule della retina (il Pip, fosfolipide fosfatidilinositolo 4,5 bifosfato), il quale a sua volta crea problemi nei processi di comunicazione retinale, portando a una concentrazione anomala di calcio seguita dalla morte della cellula fotorecettore. Intendiamoci, il problema non riguarda solo gli schermi LCD: ogni emissione di luce blu ad alta potenza può potenzialmente danneggiare la retina. Chi ha provato a sciare o a stare in spiaggia in una giornata di sole senza occhiali protettivi ne sa qualcosa. Però dal sole ci possiamo proteggere con gli occhiali e possiamo evitare di guardarlo, mentre si è spesso costretti a stare davanti per 8 ore al giorno a un monitor che spara luce blu a 30 centimetri dal viso. Anche se la potenza di emissione è bassa, il principio di precauzione consiglia di agire per ridurre il rischio. I produttori si sono già organizzati in questo senso, e le nuove generazioni di monitor hanno emissioni nella gamma del blu maggiormente controllate. Chi deve continuare a usare monitor di vecchia generazione, potrebbe cercare di tenere la luminosità al minimo necessario per leggere lo schermo senza fatica (una luminosità eccessivamente bassa potrebbe produrre affaticamento visivo), e magari installare uno di quei software che alterano lo spettro colore del monitor, impostando una curva di emissione più “calda”, cioè con maggiore presenza dei toni del rosso e minore di quelli del blu.

Alterazioni psicologiche

Se l’elenco dei problemi “fisici” creati dall’informatica è tutto sommato breve, sta assumendo proporzioni più cospicue quello dei problemi di tipo psicologico. La maggior parte di questi problemi, in realtà, non sono tanto da ascrivere all’hardware in sé, ma piuttosto a ciò che la macchina permette di veicolare: dati, informazioni, e soprattutto vita sociale.

Le prime avvisaglie di problemi psicologici dovuti all’uso del computer si erano registrate nei tardi anni ‘70 e le vittime erano principalmente programmatori: era l’epoca dei primi “home computer” e molti appassionati svilupparono una tale sinergia con queste macchine da far loro trascurare famiglia e obblighi sociali. Molti stavano al computer giorno e notte e alcuni finirono per essere ricoverati dopo pochi anni in cliniche per disturbi mentali. Oggi fare il programmatore è sicuramente ancora stressante, ma chi fa questo lavoro riesce in genere a capire quando è il momento di fermarsi. A soffrire di problemi psicologici a causa del digitale attualmente sono altre categorie. Una delle prime categorie professionali a registrare problemi è stata, nei primi anni 2000, quella dei “telelavoratori”, ovvero quelle persone che, abituate a lavorare in un ufficio insieme a vari colleghi, si sono ritrovate improvvisamente a lavorare da casa, costrette a stare tutto il giorno sole davanti al computer e collegate con l’esterno solamente via telefono. Molte aziende, infatti, avevano pensato di sfruttare la disponibilità di personal computer e linee telefoniche a basso costo per eliminare gli uffici, un asset sempre più costoso. Negli anni seguenti, la maggior parte delle aziende che avevano fatto una scelta radicale di virtualizzazione del desk, facendo lavorare i dipendenti da casa, sono tornate sui loro passi proprio per i problemi “psicologici” che la scelta comportava nel personale. L’isolamento, infatti, riduceva l’efficienza e limitava gli scambi di idee fra le persone. Ma soprattutto demotivava i dipendenti, che finivano per soffrire di sintomi depressivi. La soluzione, per molti, fu adottare una formula mista: orari e obblighi di presenza flessibili, uffici con poche postazioni utilizzabili liberamente in cui i lavoratori di ogni team potessero incontrarsi e riunirsi quando necessario, lavorando da casa per il resto del tempo.

Malattie sociali

Con la diffusione di massa di Internet, avvenuta negli ultimi 15 anni, è cresciuta rapidamente quella che viene chiamata IAD, ovvero il disturbo di dipendenza dalla Rete. Essa riguarda una piccola percentuale di individui (meno del 10% degli utenti), ma visti i numeri in gioco le cifre assolute sono alte. Fortunatamente, la maggior parte degli individui ne soffre in forma leggera. Secondo lo psicologo Jerald J. Block, l’IAD presenta quattro possibili sintomatologie:

  • uso eccessivo associato alla perdita della cognizione del tempo, che finisce per far trascurare i bisogni fondamentali come l’alimentazione e il sonno;
  • chiusura verso l’esterno, con sentimenti di rabbia, tensione e/o depressione quando il computer non è accessibile;
  • persistenza, con richieste di nuove dotazioni tecnologiche, migliori software, più tempo per stare al computer;
  • ripercussioni negative, come frequenti litigi con i familiari, facilità nel mentire, ridotta produttività professionale o scolastica, isolamento sociale, stanchezza.

Nei casi più gravi tutti i sintomi sono presenti e si può creare un quadro di depressione, soprattutto fra gli adolescenti; fortunatamente, raramente si arriva a questi “casi limite” e più frequentemente ci si trova davanti a forme lievi spesso liquidate come “technostress”.

Ma la categoria oggi maggiormente a rischio di contraccolpi psicologici è il sottoinsieme costituito dagli utenti dei social network. Certo, la definizione è generica e ancora parecchio ampia: corrisponde, più o meno, a metà della popolazione mondiale (in Italia, per esempio, quasi la metà degli abitanti ha un profilo Facebook). Vediamo dunque di restringere un po’ il campo. Sono a rischio tutti quegli utenti che fanno un uso smodato dei social network e per uso smodato intendiamo un uso tale per cui la vita “social”, o virtuale, prende il sopravvento sulla vita “reale”. Intendiamoci, ormai la vita di tutti noi si svolge in parte sui social e quindi la suddivisione fra vita reale e virtuale è spesso artificiosa. Augurare buon compleanno a un amico su Facebook non è più virtuale che farlo con un SMS. I problemi, invece, cominciano a manifestarsi quando gran parte della propria vita passa attraverso, o esiste soltanto, all’interno del social network. E anche qui ovviamente i soggetti maggiormente esposti al rischio sono gli adolescenti, anche se i casi fra gli adulti non mancano.

Quali sono le sindromi più comuni? Pensateci un attimo: cosa fate se, mentre siete in macchina per andare in ufficio, vi accorgete di aver dimenticato il cellulare? Molto probabilmente tornerete indietro a prenderlo, anche se potreste benissimo svolgere il vostro lavoro senza lo smartphone. Per molte persone restare senza cellulare (o trovarsi in un luogo dove non c’è campo e dove non ci si può connettere a Internet) crea uno stato ansioso, noto come “nomofobia”, dall’inglese “no mobile fobia”, la paura di rimanere sconnessi. Chi soffre di nomofobia può sperimentare, se si trova senza campo o con il cellulare scarico, sintomi che vanno dall’ansia agli attacchi di panico, passando per tremori e techicardia. Secondo uno studio inglese, il 53% degli utenti di cellulari va in ansia se si trova a corto di batteria, di credito o senza campo.

Un altro disturbo che sta diventando più frequente è detto FOMO, acronimo di “Fear of missing out”, paura di essere tagliati fuori: chi ne soffre teme che, se dovesse sconnettersi dal Network, potrebbero succedere cose molto importanti da cui sarebbe irrimediabilmente tagliato fuori, estromettendolo di fatto dal suo gruppo di riferimento. Si tratta in effetti di un disturbo che è sempre esistito nella vita reale, ma con i social network si è esacerbato. Gli adolescenti si connettono appena svegli, a scuola di nascosto, durante i pasti, e la notte prima (o invece) di dormire – tanto da soffrire di un altro disturbo, il “vamping” (comportamento da “vampiro”, che sta sveglio di notte e la mattina va a scuola assonnato e con gli occhi rossi). La sindrome FOMO è più comune fra i soggetti con bassa autostima, e più diffusa fra i maschi che fra le femmine. Togliere il cellulare ai ragazzi che ne soffrono è probabilmente il modo più sbagliato per combatterla: alcuni soggetti sviluppano delle vere e proprie crisi di astinenza. Bisogna invece intervenire a monte, ricreando l’autostima e impostando un rapporto più sano ed equilibrato con la tecnologia mobile.

Le non-malattie

Come se i disturbi reali non fossero sufficienti a suscitare attenzione, c’è chi divulga bufale su altri ipotetici danni fisici provocati dalla tecnologia digitale, al solo scopo di far crescere l’allarmismo. Fra le bufale più diffuse, quella secondo la quale il cellulare provocherebbe il cancro al cervello, in quanto indurrebbe un surriscaldamento in alcune zone del cranio. Ora, è vero che alcuni ricercatori hanno dimostrato che alcuni vecchi modelli di cellulari emettevano in direzione dell’utente piccole quantità di onde radio potenzialmente in grado di alzare la temperatura di alcuni tessuti; tuttavia, sulla terra da una quindicina d’anni sono in uso alcuni miliardi di cellulari e molti milioni di utenti li tengono incollati all’orecchio oltre 4 ore al giorno. Nonostante questo, le statistiche sui tumori al cervello non mostrano alcuna variazione significativa rispetto al secolo scorso, quando i cellulari non c’erano.

Un’altra bufala è quella secondo cui le onde radio del wi-fi sarebbero nocive. Si tratta di onde radio come le altre, come quelle della Tv o dei cellulari; solo che le potenze in gioco sono ridottissime, perché la portata massima di una rete Wi-fi si aggira sui 100 metri. Di fatto, un trasmettitore wi-fi genera un campo nettamente più debole rispetto a quello creato dal vostro cellulare 3G/LTE (che ha una portata di alcuni chilometri) e se quest’ultimo non provoca danni, figuriamoci il wi-fi.

L’autore

Gianluigi Bonanomi

Giornalista professionsita, con expertise in ambito technology e digital.

Bibliografia

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