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I digiceutici: cosa sono?

I digiceutici: cosa sono?

Sono lontani i tempi i cui i farmaci erano solo composti chimici. La tecnologia ha rivoluzionato anche il mondo delle terapie: oggi abbiamo a disposizione trattamenti privi di principio attivo. Di cosa si tratta? Come funzionano? Scoprilo nell’articolo

Data di pubblicazione: 05 novembre 2018

È possibile creare App per smartphone che agiscano a tutti gli effetti come terapie? Negli USA ne sono convinti. E alcune aziende sono praticamente pronte ad aprire il mercato.

Da millenni, la medicina utilizza farmaci per il trattamento della maggior parte delle malattie: sostanze costituite da principi attivi che agiscono chimicamente per ripristinare una situazione di equilibrio nell’organismo. Nei secoli, i farmaci si sono progressivamente evoluti e raffinati: siamo passati dai decotti di erbe medicinali usati già dagli antichi egizi, a estrarre e somministrare solo i principi attivi contenuti nelle piante, e poi a creare in laboratorio principi attivi non presenti in natura.

Oggi siamo in grado di costruire pillole intelligenti, dotate di microscopici computer e sistemi di comunicazione, capaci di rilasciare i principi attivi in modo temporizzato, o su richiesta, o quando arrivano in prossimità di determinate parti del corpo. Tuttavia, anche in questi nuovi farmaci, il ruolo centrale nella terapia è sempre svolto dal principio attivo del trattamento. Ebbene, c’è chi sta lavorando a un concetto di farmaco del tutto nuovo: un farmaco senza principio attivo, e che non va introdotto nel corpo. Parliamo dei cosiddetti “digiceutici”, o per gli anglofoni “Digital Therapeutics”.

Di cosa si tratta? È presto detto: di App.

Due “applicazioni” al giorno

Si tratta di vere e proprie applicazioni per gli smartphone, come quelle che usiamo tutti i giorni per chattare sui social network o ritoccare i nostri “selfie”. Ma, ovviamente, non si tratta di App qualsiasi. A differenza delle normali App, infatti, non saranno scaricabili liberamente da chiunque abbia voglia di comprarle, ma dovranno essere prescritte da un medico, che fornirà al paziente un codice a barre necessario per effettuare il download. Inoltre, per poter essere classificate come “farmaci” queste app devono superare gli stessi trial di efficacia e sicurezza a cui sono sottoposti i farmaci “tradizionali”.

I produttori di applicazioni digiceutiche devono fornire la garanzia che esse siano correttamente funzionanti, sicure ed efficaci da un punto di vista terapeutico. In caso contrario, la FDA USA e gli enti preposti al controllo nelle varie parti del mondo, non potranno concedere il nulla osta all’utilizzo come terapia. E per capire quanto sia difficile arrivare a garantire una App, vi basti pensare che oggi, nonostante oltre 30 anni di ricerche in tutte le maggiori università, non esiste ancora un metodo o uno strumento capace di analizzare un software e di garantirne la correttezza di funzionamento al 100%.

Alcuni esempi

Fra i pionieri del settore, un posto di rilievo spetta a Pear Therapeutics, che già nel settembre dello scorso anno ha ottenuto dalla FDA il permesso di commercializzare reSET, una App dedicata alle persone con problemi di dipendenza (in particolare da alcol, marijuana e cocaina). I trial clinici eseguiti con reSET hanno dato ottimi risultati: il 40% dei pazienti trattati con il supporto dell’App riusciva ad astenersi dalla dipendenza per periodi di tre mesi, contro il 17,6% dei pazienti che venivano trattati solo con terapie convenzionali. La stessa Pear ha già iniziato i trial per altre 3 applicazioni terapeutiche:

  • reSET-O, simile alla precedente ma specifica per le dipendenze da oppiacei;
  • Thrive, per il trattamento della schizofrenia;
  • reCALL, che utilizza tecniche di realtà virtuale per aiutare i soggetti colpiti da stress post-traumatico, in particolare, soldati di ritorno da scenari di guerra.

Al momento, esiste solo un’altra App già approvata dall’FDA: si tratta di Bluestar, prodotta da WellDoc Inc, un’App che aiuta i malati di diabete di tipo 2 nella gestione della malattia.

Oltre a quelle citate, sono parecchie le aziende che stanno lavorando su queste tematiche, tanto che si è già costituita una organizzazione che le raggruppa. Si chiama DTA, Digital Therapeutics Alliance, e conta al momento 13 membri rappresentati da aziende farmaceutiche e aziende leader nel campo digital. La DTA si propone di aumentare la comprensione, l’adozione e l’integrazione di soluzioni di terapie digitali validate clinicamente, attraverso un programma di ricerca e sviluppo strutturato.

I vantaggi della digiceutica

I vantaggi principali delle terapie digitali (o Dtx come vengono anche chiamate) consistono prima di tutto nel fatto che permettono ai medici di lavorare meglio, in quanto riducono la necessità di seguire costantemente il paziente – è il caso di ricordare che molte applicazioni Dtx si concentrano su malattie croniche o su disordini neurologici, con pazienti spesso poco inclini a seguire la terapia e che necessitano di essere costantemente motivati.

Inoltre, in molti casi permetteranno di ridurre la quantità di farmaci tradizionali impiegati. Ulteriori vantaggi si registreranno quando le App potranno utilizzare sensori (pressione sanguigna, temperatura, battito, glicemia ecc.) e potranno trasmettere i dati del paziente in tempo reale al medico o magari a un computer diagnostico in grado di rilevare e segnalare eventuali anomalie. Da non trascurare, infine, il vantaggio economico: l’utilizzo di App abbassa i costi relativi al personale medico, e in futuro ridurrà anche le quantità (e quindi i costi) dei farmaci tradizionali. Infine, il fatto che le Dtx siano disponibili perfettamente su normali smartphone o tablet, sia Android che iOS, ne semplificano l’utilizzo, poiché non sono necessarie strumentazioni dedicate.

Gli ostacoli

Anche se la strada verso le DTx è ormai aperta, non si può dire che sia tutta in discesa. Un problema, per esempio, sarà far capire agli utilizzatori (ma anche agli stessi operatori della sanità) che c’è una grande differenza fra queste App e la pletora di software e dispositivi indossabili dedicati al fitness e classificati informalmente come “health gadget”.

I vari smartwatch, fasce cardio e wearable device in vendita nei negozi di sport o di elettronica non sono nati per essere usati come dispositivi medicali, e infatti non sono certificati per questo scopo. La loro destinazione è più orientata al “wellness” in generale.

Tuttavia, è chiaro che nel momento in cui diventeranno facilmente reperibili sul mercato consumer sensori e dispositivi certificati per uso medico, i campi d’impiego delle digital therapy si estenderanno ben oltre i limiti attuali, tanto da ritenere più che probabile il loro impiego generalizzato in tutti quei settori dove il paziente va costantemente monitorato e guidato nella terapia.

Non va dimenticato che si tratta pur sempre di tecnologia, con svantaggi associati (oltre ai potenziali vantaggi) e che non esula dalla priorità di un rapporto medico-paziente diretto.

L’autore

Gianluigi Bonanomi

Giornalista professionsita, con expertise in ambito technology e digital.

Bibliografia

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