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Vitamina D e patologie cardiovascolari: lo stato dell’arte

Vitamina D e patologie cardiovascolari: lo stato dell’arte

La vitamina D mantiene l’omeostasi del calcio, tuttavia è noto che abbia anche altri effetti pleiotropici extrascheletrici, come ad esempio  sul sistema cardiovascolare. Evidenze sperimentali in vivo e in vitro descrivono un ruolo della vitamina D sul miocardio e sui vasi periferici. Studi longitudinali confermano l’associazione tra ipovitaminosi D e un’aumentata incidenza di patologie e mortalità cardiovascolare, ma al momento gli studi di intervento non hanno confermato l’effetto benefico della supplementazione.

Data di pubblicazione: 20 settembre 2019

La vitamina D, nelle sue due forme vitamina D2 e D3, è il precursore dell’ormone 1,25(OH)2vitaminaD o calcitriolo, ed è classicamente considerata un cruciale regolatore dell’omeostasi del metabolismo calcio-fosforo.

Negli ultimi dieci anni tuttavia, sono emersi dati interessanti in letteratura riguardo i possibili effetti extrascheletrici o pleiotropici della 1,25(OH)2vitaminaD su molti organi e apparati, tra cui il sistema immunitario, il muscolo, il pancreas endocrino e, non ultimo, il sistema cardiovascolare. I dati emersi dagli studi in vivo e in vitro evidenziano chiaramente l’azione dell’ormone vitamina D a livello tissutale e cellulare e numerosi studi retrospettivi di associazione hanno confermato che l’ipovitaminosi D è correlata con diverse patologie. D’altra parte, al momento, gli studi randomizzati e i trial clinici di intervento non consentono di trarre informazioni conclusive circa un beneficio reale nella supplementazione di vitamina D sugli endpoints extrascheletrici.

Nei primi anni ’80 Robert Scragg per primo propose l’ipotesi che l’incremento dell’incidenza delle patologie cardiovascolari, rilevato nei mesi invernali, rispetto ai mesi estivi, potesse essere correlato alla ridotta esposizione solare e dunque ai più bassi livelli di vitamina D. Questa idea fu alla base del successivo interesse scientifico nelle relazioni tra vitamina D e sistema cardiovascolare.

I dati preclinici

Il recettore della vitamina D (VDR) è espresso nel cuore di ratto e in quello umano e, attraverso questo recettore, la 1,25(OH)2vitamina D avrebbe un ruolo nella modulazione dell’ipertrofia cardiaca e dello scompenso cardiaco. È stato infatti dimostrato che la 1,25(OH)2vitaminaD è direttamente coinvolta nei processi cellulari calcio-dipendenti, inclusa la sintesi delle proteine che legano il calcio, l’attivazione dell’adenilato ciclasi, la rapida attivazione dei canali del calcio voltaggio-dipendenti e l’uptake e il rilascio di calcio dal reticolo sarcoplasmatico. Oltre agli effetti diretti sui cardiomiociti, sono stati dimostrati effetti sulle cellule del sistema vascolare: infatti, la 1,25(OH)2vitamina D modula la crescita delle cellule muscolari lisce e delle cellule endoteliali e, in queste ultime, è in grado di stimolare la sintesi di ossido nitrico (NO), inducendo vasodilatazione. Effetti sistemici della vitamina D sulla pressione arteriosa sono spiegati dal ruolo della 1,25(OH)2vitaminaD come regolatore negativo del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAS).

Importanti aspetti della relazione tra vitamina D e sistema cardiovascolare sono stati evidenziati dalle osservazioni dei modelli animali di topo knockout per il recettore della vitamina D (VDR-/-). In questo modello sperimentale si sviluppano segni tipici dello scompenso cardiaco, inclusa l’attivazione del sistema RAS, l’aumento del peptide natriuretico atriale e della pressione arteriosa.

Ulteriori meccanismi attraverso cui il calcitriolo avrebbe influenza sul sistema cardiovascolare sono rappresentati dall’azione sul sistema immunitario e da quella anti-infiammatoria e, indirettamente, attraverso l’azione del PTH.

Gli studi osservazionali

Per quanto riguarda la ricerca nell’uomo, numerosi studi longitudinali di coorte hanno effettivamente dimostrato un’associazione tra deficienza di vitamina D e aumentata prevalenza di eventi cardiovascolari come scompenso, ictus, infarto del miocardio. Nello studio Framingham del 2008, livelli di 25OHD inferiori a 15 ng/ml erano associati con un incremento del 60% del rischio di sviluppare eventi cardiovascolari, dopo adeguata correzione statistica per numerosi fattori di rischio cardiovascolari. Fischella e i suoi collaboratori hanno dimostrato una associazione tra deficit di vitamina D e aumentato rischio di mortalità cardiovascolare, utilizzando i dati del Third National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES 1988-1994). Più recentemente, l’aggiornamento dello stesso database con i dati 2001-2010, ha permesso di confermare l’associazione. In Europa, lo studio Copenaghen City Heart condotto su più di 10.000 soggetti sani seguiti per 29 anni, ha evidenziato come i percentili più bassi di livelli di vitamina D siano associati a un incremento di infarto miocardico del 64% e più in generale di mortalità cardiovascolare di +81%.

Numerosi studi si sono concentrati sulle correlazioni tra ipovitaminosi D e scompenso cardiaco, la cui mortalità e morbidità resta ancora elevata e per questo la ricerca è molto attiva nell’individuare potenziali target terapeutici. Tra i vari articoli citiamo lo studio di Shane che ha messo in relazione i ridotti livelli di 25OHD con la minore tolleranza all’esercizio fisico e il ridotto picco di ossigeno in 101 pazienti con scompenso cardiaco e lo studio di Schleithoff che ha evidenziato una correlazione tra disfunzione contrattile del ventricolo sx e ipovitaminosi D. Fiscella e coll. hanno riportato che il livello di 25OHD rappresenta un fattore predittivo indipendente di mortalità cardiovascolare e per scompenso cardiaco; nel 2012 Gotsman e coll. hanno riportato la prevalenza di ipovitaminosi D in un’ampia popolazione con scompenso cardiaco, hanno confermato che tale deficit rappresenta un fattore di peggioramento dell’outcome dei pazienti scompensati e hanno evidenziato come la corretta supplementazione con vitamina D determini un miglioramento degli indici di outcome. Infine, il nostro gruppo (Saponaro e coll.) ha recentemente pubblicato dati su una coorte italiana di 261 pazienti con scompenso cardiaco: i livelli di 25OHD erano inversamente correlati al MECKY score, un indice validato di mortalità nei pazienti con scompenso cardiaco, basato sulla combinazione di variabili obiettive e biochimiche. Inoltre, i livelli di 25OHD erano direttamente correlati con la capacità respiratoria in questo gruppo di pazienti, valutata attraverso il test cardiopolmonare da sforzo. Infine, in un sottogruppo di pazienti valutavamo anche l’outcome cardiovascolare: i livelli più bassi di vitamina D nei pazienti con scompenso cardiaco erano correlati a una più bassa sopravvivenza.

Al di là dei singoli studi, corpose metanalisi pubblicate tra il 2012 e il 2018 hanno riassunto e messo ordine nei dati della letteratura, confermando di fatto l’associazione tra ipovitaminosi D ed eventi cardiovascolari multipli, nonché mortalità.

Studi di intervento

Sulla base degli studi di associazione, sono stati proposti studi randomizzati di supplementazione, con lo scopo di chiarire definitivamente il ruolo del calcitriolo nella patologia cardiovascolare. Lo studio Women’s Health Initiative ha valutato più di 36.000 donne randomizzate alla supplementazione con 400 UI di vitamina D e 1000 mg di calcio o placebo: non veniva evidenziata però alcuna differenza statisticamente significativa tra il braccio di intervento e il placebo. Nello studio Cochrane, la supplementazione di vitamina D non aveva effetti nel ridurre la mortalità per patologie cardiovascolari. Lo studio VIDA, randomizzato, contro placebo, in doppio cieco, condotto in Nuova Zelanda su adulti ai quali venivano somministrate 100.000 UI di colecalciferolo mensilmente oppure placebo, confermava l’assenza di beneficio nel braccio di terapia rispetto al placebo. Un effetto protettivo nei confronti dello scompenso cardiaco veniva riportato dallo studio RECORD su più di 5000 soggetti supplementati con 800 UI di colecalciferolo giornaliere; l’effetto positivo non era però evidente se l’endopint finale era l’infarto miocardico o l’ictus. Un dosaggio più consistente di colecalciferolo (2000UI/giornaliere) veniva somministrato nello studio di Shleithoff e coll. per 9 mesi: si otteneva una riduzione significativa dei livelli di citochine proinfiammatorie nel braccio vitamina D, senza sostanziali modifiche degli indici di funzionalità ventricolare e dei biomarcatori. Nell’ambito dello scompenso cardiaco, alcuni dati a favore della supplementazione con colecalciferolo sono stati riportati da Dalbeni che riportava un significativo miglioramento della frazione di eiezione cardiaca dopo 6 mesi di colecalciferolo 2000UI/die e da Shedeed che riportava un miglioramento della funzione cardiaca dopo 12 mesi di supplementazione. Infine, lo studio VINDICATE riportava un miglioramento significativo dei parametri ecocardiografici in pazienti con scompenso cardiaco supplementati con 4000 UI di colecalciferolo giornaliere rispetto al placebo, sebbene non ci fossero effetti sull’endpoint primario che era il test dei 6 minuti di cammino.

Molti degli studi di intervento randomizzati pubblicati presentano alcuni bias da segnalare: alcuni non sono stati disegnati con endpoints dedicati agli effetti extrascheletrici, non sempre è presente il dato del livello basale di 25OHD, in alcuni casi la supplementazione è stata effettuata anche in pazienti/soggetti non chiaramente carenti, i protocolli di supplementazione sono quanto mai variegati.

Nel complesso, tuttavia, i dati riguardanti gli effetti della vitamina D derivanti da studi randomizzati di intervento, sono dubbi o francamente deludenti.

Studi di randomizzazione mendeliana

Gli studi di genetica epidemiologica sono un nuovo strumento molto utile, da affiancare all’epidemiologia osservazionale classica, e forniscono un valido strumento per indagare la causalità di una associazione, senza disegnare studi di intervento complessi, che necessitano di un numero elevato di soggetti e di tempi di follow-up prolungati. Gli studi di randomizzazione mendeliana si basano sul concetto che determinati polimorfismi genetici determinano uno specifico fenotipo che influenza la suscettibilità a una patologia, stabilendo delle causalità tra gene e rischio per una specifica condizione. Questo approccio sta prendendo sempre più piede nell’analisi dei polimorfismi della vitamina D e degli effetti pleiotropici. Nell’ambito cardiovascolare lo studio di Brondum-Jacobsen prendeva in considerazione oltre 90.000 soggetti, nei quali veniva effettuata l’analisi del genotipo usando SNPs nei geni DCHR7 e CYP2R1. In questa popolazione non veniva riscontrata un’associazione significativa tra i bassi livelli di 25OHD geneticamente determinati ed eventi ischemici cardiovascolari. Alla stessa conclusione giungeva uno studio canadese su 30.000 individui che valutava l’associazione tra i polimorfismi della vitamina D e la patologia cardiaca coronarica. D’altra parte, una recente meta-analisi di studi genetici che valutava i bassi livelli di vitamina D determinati geneticamente e la pressione arteriosa, metteva in evidenza un nesso di associazione/causalità con l’ipertensione. Infine, Ooi e i sui collaboratori suggerivano che la vitamina D bassa potesse essere un marker di predisposizione all’aterogenicità, valutando l’associazione tra polimorfismi della vitamina D e livelli di colesterolo.

Nel complesso, gli studi di randomizzazione mendeliana sono ancora non concludenti, ma saranno in futuro uno strumento importante nella valutazione vitamina D e patologie cardiovascolari.

Conclusioni

È ancora controverso ed è ancora un tema dibattuto il ruolo causale dello status vitaminico D nelle patologie cardiovascolari. Sebbene gli studi preclinici e longitudinali stabiliscano chiaramente nessi di associazione, gli studi di intervento e gli studi di epidemiologia genetica non sembrano a favore di un beneficio nella supplementazione. Sulla base di ciò, non è ancora chiaro se il ruolo dell’ipovitaminosi abbia una qualche causalità nello sviluppo della patologia cardiovascolare e dunque rappresenti un target terapeutico da ottimizzare, oppure se l’ipovitaminosi D sia da considerare un marcatore di uno stato di salute compromesso e dunque comunque un campanello di allarme nella gestione del paziente con patologia cardiovascolare.

Attualmente numerosi studi di intervento internazionali, disegnati con endpoints extrascheletrici, sono in corso e ci forniranno auspicabilmente le risposte alle domande ancora aperte.

L’autore

Dr.ssa Federica Saponaro

Endocrinologa; Ricercatore Universitario tipo A presso Biochimica Clinica Università di Pisa.

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