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Il tipo di empatia funzionale alla professione

Il tipo di empatia funzionale alla professione

EMPATIA E COMPLIANCE IN SANITÀ

Entrare in relazione con pazienti e familiari comprendendone lo stato e le istanze senza coinvolgimento emotivo personale.

Data di pubblicazione: 09 gennaio 2018

Da tempo viene posta attenzione sul ruolo dell’empatia in sanità. Vari studi (Hojat, Kim et al., Squier) confermano infatti come all’azione empatica del medico corrispondano l’aumento di soddisfazione dei pazienti e della compliance, la crescente accuratezza di diagnosi e prognosi, la riduzione dei tempi di convalescenza e delle azioni legali. Si tratta però di un fenomeno complesso, affascinante e al tempo stesso controverso. Occorre quindi indagarne natura e strumenti, dimensione relazionale e modalità operative. Utile è anche individuare la zona di sicurezza entro cui agire per evitare il burn-out.

Di cosa si parla

Il termine deriva dal greco empatéia (εμ+παθεία = εμπαθεία), composto da en- (dentro) e pathos (sofferenza o sentimento). Indicava il rapporto di partecipazione fra l’autore-cantore e il pubblico. Nell’uso comune è un processo di immedesimazione definito come “trovare echi di un’altra persona dentro di sé” (M. Hamid) e “mettersi nei panni degli altri”. Tali espressioni non chiariscono però la questione né forniscono indicazioni operative. Anzi, generano commistioni con la simpatia e la compassione, da tenere invece distinte.

“Simpatia” deriva dal greco sympatheia, composto di συμ (insieme, nello stesso tempo) + πάσχω (sentimento), ovvero “condividere emozioni con taluno”. “Compassione” viene invece dal latino cristiano pati (patire) col prefisso com-, cioè “comunanza di dolore”.

Andando in questa direzione troveremmo un medico che entra in contatto così profondo con i pazienti da avvertirne realmente la sofferenza e il sollievo agli esiti positivi della terapia.

“Sentire tanto” non significa però di necessità “sentire bene” o “meglio”. Infatti, spendere troppe energie per leggere e vivere l’altro, che in quanto tale oppone invece una quota ineludibile di alterità, può andare a discapito della propria auto-regolazione e della sintonizzazione stessa. Lo confermano uno studio di Spengler et al. (2010), per il quale la persona con autismo più che denotare un sistema mirror deficitario sentirebbe troppo gli altri, così da doversi proteggere con manovre onerose, insieme ai lavori di Woods Winnicott (1965) sulla madre che si sbilancia in modo eccessivo verso il bambino e mina la sintonia della diade.

In direzione opposta troviamo una madre centrata sui propri bisogni e un medico che considera solo la malattia, per cui il paziente è oggetto, corpo o parte del corpo, mentre i suoi aspetti personali non ricevono attenzione.

Quale empatia

Nell’empatia sono identificabili due dimensioni: emotiva, che sconfina nella simpatia; cognitiva, che considera l’interlocutore. Nella prima, secondo Menon e Uddin (2010) l’insula genera una rappresentazione delle emozioni altrui integrate con sensazioni corporee. In quella cognitiva gli stati emotivi altrui vengono invece identificati, riconosciuti ma tenuti distinti dai propri. Una ricerca della Monash University (2015) ha evidenziato come questo approccio risulti associato alla corteccia medio-cingolata e alla corteccia prefrontale dorso-mediale (MCC/dmPFC).

Per tutto ciò, occorre considerare la forma empatica funzionale alla professione come un attributo cognitivo. L’attenzione punta a comprendere in modo volontario le esperienze, le preoccupazioni e le prospettive del paziente come altre da sé. Occorre anche che tale comprensione sia evidente e correlata all’intenzione di dare sostegno.

Ad esempio, come può il medico “sperimentare dentro di sé” i sentimenti dei congiunti di un paziente con prosopoagnosia da Alzheimer, che indica la moglie come sua madre perché “è troppo vecchia e brutta” (M. Notariello, 2016)? Può però accoglierne la tristezza come legittima, dando al contempo rassicurazioni sul rapporto fra affermazioni incongrue e patologia.

Modalità per l’empatia cognitiva

Secondo gli studi di Rogers, chi empatizza:

  • concede spazio all’altro e a se stesso;
  • mette a fuoco la prospettiva dell’altro e ne inferisce le emozioni come diverse dalle proprie;
  • mantiene il contatto con se stesso;
  • aiuta l’altro a comprendere in autonomia la propria realtà.

Alcuni elementi operativi sostengono l’azione.

Comunicazione con pazienti e familiari. Distribuire l’attenzione e lo sguardo fra tutti. Adeguare il linguaggio alla loro comprensione. Chiedere cosa intendano se utilizzano vocaboli generici o specialistici. Dare attenzione al linguaggio del corpo. Fare una cosa alla volta. 

Raccolta di informazioni. Far tacere i propri pensieri e considerare come il paziente riferisce il proprio stato, rilevante al pari dei sintomi (R. Charon). Ove occorra, parlare con il paziente e suoi familiari in sedi separate. Indagare ciò che l’altro pensa della propria malattia, eventualmente integrando la sua percezione.

Denotare comprensione. Riassumere ciò che è stato riferito. Mostrare interesse per la compliance e i suoi esiti. Riflettere sulle modalità di risposta del paziente e dei familiari alle perdite (lutto).

D’altra parte, l’empatia non può essere considerata come un elemento ineludibile del rapporto terapeutico. In alcune occasioni occorre anzi evitarla. Ad esempio, ove l’interlocutore si esprima in modo chiaro e preciso, se il suo comportamento risulta inaccettabile, se desidera solo informazioni o quando il tempo manca. Tolti questi casi l’equilibrio dell’empatia cognitiva pare il più funzionale, evitando sia il fallimento relazionale di chi non “sente” l’altro che l’eccesso di esposizione, altrettanto prognostico di sofferenza.

L’autore

Dr. Paolo Boschi

Presidente Agenzia Formativa A.P.O.Ge.O. – Firenze

Bibliografia

Ricerca della Monash University, Prato Centre, European base for Monash University (Melbourne, Australia), con uso di morfometria basata su una tecnica di neuroimagining a colori. Eres, R., Decety, J., Louis, W.R., & Molenberghs, P. (2015). Individual differences in local gray matter density are associated with differences in affective and cognitive empathy. NeuroImage, 117, 305-310.

  1. Boschi e L. Sprugnoli, Superare l’ansia, De Vecchi, Firenze, 2012
  2. Boschi e L. Sprugnoli, Gestire le riunioni, Gruppo Giunti, Firenze, 2012
  3. Charon, Narrative Medicine: honoring the stories of illness, Paperback, 2008
  4. Hojat, Empathy in Patien Care. Antecedentes, Development, measurement and Outcomes. New York, NY, Springer, 2007
  5. Kim, S. Kaplowitz, MV. Johnston, The effects of physician empathy on patien satisfaction and compliance, Eval Health Prof. 2004; 27:237-251
  6. Charon, Stories Matter: The Role of Narrative in Medical Ethics, Routledge, 2002
  7. Woods, Dell’arte del tacere, Demetra, Padova 2000
  8. Squier, A model of empathic understanding and adherence to treatment regimens in practitioner-patient relationships. Soc. Schi Med. 1990, 30:325-339
  9. Woods Winnicott, I bambini e le loro madri, trad. Maria Lucia Mascagni e Renata Gaddini, Milano: Cortina, 1987

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