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Il Medical coaching

Il Medical coaching

È uno strumento innovativo per gestire la malattia oncologica cronica. Un metodo che gli operatori sanitari possono mettere in campo per supportare a 360° i pazienti. Ma in cosa consiste? Come si applica nel concreto? In Italia viene già utilizzato? 

Data di pubblicazione: 04 gennaio 2019

È destinato inevitabilmente ad aumentare il numero delle diagnosi di tumori ematologici, di pari passo con l’invecchiamento generale della popolazione.

Linfomi, mielomi e leucemie sono in gran parte comuni negli anziani.
Secondo i più recenti dati AIOM e AIRTUM pubblicati nel volume I numeri del cancro in Italia 2018, sono oltre 33.000 gli italiani che ogni anno si ammalano di uno dei sottotipi diversi di neoplasie del sangue, e in ben due terzi dei casi si tratta di anziani over 65. «Per quattro di queste condizioni patologiche – spiega Lydia Scarfò della Divisione di Oncologia sperimentale dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – è evidente come il numero di persone colpite aumenti nel tempo: da 1,2 a 3,6 casi su 10.000 per il mieloma multiplo (MM), da 0,4 a 1,7 per la leucemia linfoblastica acuta (LLA), da 2,7 a 4,85 per la leucemia linfatica cronica (LLC) e da 1 a 2 per la leucemia mieloide cronica (LMC)».

Ma se da un lato oggi, grazie ai progressi della medicina, un paziente oncologico su quattro può guarire e sono diventate croniche malattie una volta ritenute mortali, dall’altro convivere per molti anni con una patologia importante può rivelarsi difficile per:

  • l’impatto dei trattamenti antineoplastici
  • l’ansia dei controlli
  • la paura di possibili aggravamenti delle condizioni cliniche
  • le conseguenze psicologiche e fisiche che pazienti e familiari devono affrontare.

Da queste premesse è nato il primo servizio di medical coaching  italiano nella cui formula credono gli IRCCS dell’Ospedale San Raffaele e dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, che l’hanno accolto e attivato nel 2018 dopo che era già stato sperimentato con successo al Policlinico di Milano nel 2017. Un metodo innovativo dedicato ai pazienti onco-ematologici cronici e ai loro familiari/caregiver, messo a punto per aiutarli a gestire le difficoltà pratiche e relazionali insorte in seguito alla malattia cronica.

La simmetria della relazione medico-paziente

I progressi scientifici, i profondi mutamenti sociali del Novecento e l’acquisizione di una maggiore consapevolezza da parte dei pazienti, hanno portato all’approvazione della “Carta dei diritti del paziente” (American Hospital Association, 1973). In questo documento viene reclamato il diritto del paziente di essere adeguatamente informato delle proprie condizioni cliniche e di essere reso partecipe delle decisioni terapeutiche.

 

Il medico etico-contrattuale

La crescente attenzione al diritto di autodeterminazione di ogni individuo ha progressivamente permesso il passaggio da un rapporto medico-paziente “paternalistico” ad uno “etico-contrattuale”.

  • In quest’ottica, il paziente viene considerato adeguatamente capace di comprendere e di decidere; tale da poter partecipare alle decisioni del medico.
  • Con tale visione, ogni scelta terapeutica è idealmente una sorta di “contratto” sottoscritto liberamente dal medico e dal paziente, che sono posti sullo stesso piano. Il rapporto è quindi di tipo simmetrico, dove nessuno dei due soggetti prevarica l’altro.
  • L’introduzione dell’obbligo del consenso informato (Legge 219/2017) è una chiara espressione della valorizzazione del diritto all’auto determinazione del paziente.
  • Il medico è quindi tenuto a informare adeguatamente, nei limiti del possibile, il paziente sulla sua condizione clinica, condividendo con lui le opzioni terapeutiche, in base ai relativi rischi e benefici.
  • Talvolta questo modello può risultare frustrante per il medico che, pur consapevole delle sue competenze ed esperienza, deve adeguarsi alla volontà del proprio assistito. Ciò può voler dire non poter usare pienamente mezzi e strategie che apporterebbero benefici al paziente, a causa della sua autonoma opposizione.

Le origini del coaching

Che cosa si intende esattamente con il termine “coaching” e quali sono le sue origini? “Coaching” (che deriva dal verbo to coach) si può tradurre con il termine “allenamento, preparazione” e si riferisce al processo di sviluppo delle capacità, risorse e competenze di una persona (coachee) gestito da un professionista qualificato (Coach), attraverso l’individuazione degli ambiti di potenziale crescita e la definizione di un programma finalizzato al raggiungimento di obiettivi personali o professionali.

In Europa di coaching si parla solo da una ventina di anni. Prima che in altri paesi, però, è negli Stati Uniti che il coaching ha iniziato a essere applicato, inizialmente nello sport e successivamente anche in ambito aziendale, allo scopo di far emergere capacità e abilità individuali talvolta inaspettate. Le origini profonde del coaching si possono, tuttavia, ricondurre alla filosofia antica: la sua metodologia di base rimanda infatti al monito classico “conosci te stesso”, sottolineando la necessità che l’individuo possa approfondire gli ambiti di sviluppo personale a partire dall’autoconoscenza di sé.

L’applicazione del coaching in sanità

Il Coaching può essere efficacemente applicato in sanità in tre diversi ambiti:

  1. la relazione con l’utente/paziente
  2. la formazione degli operatori professionali
  3. le competenze organizzative dei dirigenti.

Il ricorso al Coaching in sanità ha le seguenti finalità:

  • accogliere e ascoltare il paziente (definito anche Coachee) per aiutarlo e sostenerlo, facendogli mobilitare le proprie energie per intraprendere azioni che gli permettano di raggiungere la massima consapevolezza sul suo stato di salute e mantenere, quando possibile, un alto livello di benessere psicofisico ed emotivo
  • formare gli operatori professionali sulle tecniche del Coaching e sulle cosiddette Coaching skills con l’obiettivo di ottimizzare il loro livello di prestazione nei confronti dei pazienti e degli stessi colleghi della struttura di appartenenza
  • fornire competenze ai manager sanitari affinché possano potenziare l’efficacia organizzativa e disporre in modo efficiente il personale della propria struttura, migliorando lo spirito di squadra e i risultati.

Ruolo del Coaching in sanità

Dato che nel percorso terapeutico è sempre più diffusa l’esigenza di adeguare la propria abilità di comunicazione alle caratteristiche dell’interlocutore e alle sue necessità, per il personale che opera in ambito sanitario si rende oggi necessaria l’acquisizione di strumenti in grado di costruire e gestire rapporti di cura rispettosi, veritieri, credibili, strutturati e orientati agli obiettivi di salute e benessere del paziente.
In quest’ottica il Coaching può essere utile ai professionisti della salute, che vivono una condizione costante di pressione quotidiana, per apprendere come impiegare i loro strumenti di comunicazione in maniera finalizzata, usando il massimo della loro energia a livello fisico e mentale.

Gli stessi manager che lavorano nell’ambito della salute devono acquisire o consolidare nuove competenze anche alla luce delle sfide che devono affrontare i sistemi sanitari in continuo cambiamento. Devono aiutare il personale a creare un senso di appartenenza, promuovendo la fiducia tra medici e pazientitra medici e altri professionisti, tra i manager apicali, tra pubblico e privato.
Devono acquisire e insegnare il passaggio dalla cura al “prendersi cura”, trasmettendo competenze di relazione tra collaboratori, direzione strategica e territorio.
«Se la cura è anche relazione – spiega Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità (ISS) – il Coaching in sanità non può che rappresentare uno strumento essenziale per facilitare tutto il percorso che va dalla presa in carico del paziente all’esito delle terapie. Con il metodo del Coaching é possibile migliorare in molti ambiti la capacità di approccio con i pazienti, motivare il personale e renderlo più capace di costruire sinergie al proprio interno, oltre a realizzare strategie in cui l’efficacia comunicativa renda più rapida e più semplice l’organizzazione del lavoro. Questo è anche il valore del Coaching in sanità: agire in maniera trasversale sull’andamento della cura e fare in modo che ognuna delle sue azioni risulti coordinata, coerente e, perciò, più incisiva».

Medical Coaching: la comunicazione che cura

Il Medical Coaching può dunque essere definito come un tipo di “comunicazione che cura”, una tecnica adottata dal personale sociosanitario con lo scopo di migliorare le capacità di relazionarsi positivamente con i propri pazienti, supportandoli nella promozione e cura della loro salute.

Perché ricorrervi?

Il Medical Coaching aiuta a riattivare valori, risorse ed energie per fronteggiare situazioni complesse e impegnative per la persona con malattia. Ma per migliorare lo stato di benessere del paziente, affinché sia in grado di affrontare aspetti negativi legati alla salute, è bene tenere presente che egli:

  • possiede una parte interiore importante quanto il suo corpo, che contribuisce alla sua cura anche senza farmaci (aspetti emotivi, psicologici, spirituali, ecc.)
  • vive un evento negativo (sono esclusi gli interventi di prevenzione)
  • necessita di una relazione empatica e di un canale privilegiato che permetta una costante comunicazione efficace
  • va valorizzato nelle sue doti e potenzialità
  • va sostenuto e arricchito di stimoli che gli consentano di non arrendersi facilmente
  • va coinvolto con un linguaggio positivo che lo aiuterà ad affrontare meglio l’eventuale trauma, evitando gli stati depressivi che riducono l’effetto della cura.

«Il confronto con la patologia, soprattutto cronica come può essere un tumore del sangue, – avverte Lydia Scafò, Ematologa presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano – determina stati emotivi difficili da gestire per pazienti, familiari e istituzioni, come rabbia e difficoltà/negazione nell’accettare lo stato di malattia che richiedono aiuto per essere superate. Uno dei problemi che possono scaturire da un conflitto emozionale di questo tipo è la mancata aderenza alla terapia antineoplastica».

In genere, i pazienti non seguono le indicazioni del personale sanitario per due motivi:

  1. per carenza informativa e/o di comprensione di quanto loro comunicato
  2. perché decidono intenzionalmente di non seguirle in quanto non le condividono, preferiscono consultare altri specialisti o le ritengono troppo onerose.

Nel primo caso il fenomeno si definisce anche “non aderenza involontaria”, in quanto il soggetto non comprende la terapia da assumere o la sua importanza, e spesso dimentica quello che gli viene detto per difficoltà cognitive o pratiche. A determinarla può essere anche il personale sanitario che, dedicando poco tempo alla visita, sottostima il desiderio dei pazienti di essere informati.
Nel secondo caso, invece, si tratta di “mancata compliance volontaria”, spesso accompagnata da una scarsa attenzione da parte degli operatori alla comprensione dell’importanza della terapia da parte del paziente. C’è chi percepisce la terapia farmacologica in maniera negativa in base alle proprie credenze e conoscenze sui farmaci o sulla base delle esperienze pregresse (personali o di familiari e amici), e chi teme l’instaurarsi di dipendenza o danni permanenti a causa della somministrazione di farmaci a lungo termine. Spesso la resistenza è riconducibile alla sfiducia nei prodotti chimici o nella medicina e tecnologia in generale o verso gli stessi medici che tendono, secondo i pazienti, a prescrivere troppi farmaci. Altri fattori di resistenza sono associati a sentimenti di dolore e rabbia scatenati dalla diagnosi ricevuta, che possono istigare dubbi nel paziente fino al punto di negare la malattia o, al contrario, di convincerlo che non vi sia bisogno di alcun trattamento.

  • Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), sono cinque i fattori alla base dell’aderenza alle terapie (Figura 1):
    1. tipo di disturbo
    2. tipo di trattamento
    3. caratteristiche del paziente
    4. fattori socioeconomici
    5. fattori legati al sistema e agli operatori sanitari, in particolar modo la qualità delle relazioni medico-paziente.

Gli obiettivi

Obiettivo primario del Coach consiste nella creazione di strategie utili a far raggiungere i traguardi concordati con il Coachee, stabilendo i risultati che si aspetta di ottenere e offrendo supporto per permettergli di trovare le risorse per affrontare un cambiamento dello stato di salute, che può comportare l’assunzione di specifiche e a volte complesse terapie. Questo tipo di Coaching, in pratica un patto di alleanza tra Coach e Coachee, si basa sulla capacità del primo di rispettare le preoccupazioni del secondo, di fornire informazioni adeguate, di rassicurarlo e coinvolgerlo in maniera attiva mostrando sempre uno stile comunicativo “caldo” ed empatico. Numerosi studi e ricerche confermano che i pazienti maggiormente coinvolti da un punto di vista comunicativo nella consultazione, i cui Coach sanitari pongono maggiore attenzione alla relazione, raggiungono livelli di maggior efficacia della cura e un miglioramento del benessere fisico e psicologico.

Le strategie

Il Medical Coaching, che non si occupa dunque di aspetti medici ma di tutto ciò che ruota attorno alle problematiche generate dalla presenza della malattia, è svolto da Coach professionisti secondo una strategia che si sviluppa in due passaggi, affiancando pazienti e famiglie durante l’evolvere della patologia.

  1. Engagement del paziente, per consentirgli di sviluppare una capacità attraverso cui:
    1. aderire al meglio alle terapie
    2. adottare uno stile di vita più salutare
    3. abbattere ostacoli, barriere e convinzioni limitanti che si frappongono a un pieno engagement.
  2. Empowerment del paziente, che in questo modo può pianificare e mettere in atto azioni consapevoli e responsabili per conseguire i propri obiettivi di benessere psicofisico e vivere il proprio stato di malato nel miglior modo possibile.

«Il servizio di medical Coaching per ciascun malato – precisa Lydia Scarfò – si sviluppa in tre fasi successive per far emergere come il paziente si relaziona con la patologia, la terapia e le persone». Tali fasi prevedono (Tabella 1):

  • un colloquio individuale conoscitivo
  • 12 incontri collettivi nell’arco di 6 mesi suddivisi in cinque step:
    1. osservazione
    2. esplorazione
    3. preparazione
    4. azione
  • una fase di affiancamento individuale di durata annuale.
OSSERVAZIONE ESPLORAZIONE PREPARAZIONE AZIONE MANTENIMENTO
  • Svilippo della consapevolezza
  • Identificazione di atteggiamenti, abitudini e procedure da modificare
  • Ricerca di elementi motivazionali
  • Assuzione di un ruolo attivo e non passivo
  • Adesione alla terapia
  • Continuità terapeutica. Definizione dei punti di forza.
  • Lavoro su autoefficacia e auto-determinazione
  • Sviluppo della fiducia
  • Definizione degli obbiettivi individuali
  • Assunzione di responsabilità
  • Sviluppo strategie. Disegno del Piano di Azione
  • Identificazione dei potenziali ostacoli e degli elementi di facilitazione
  • Coinvolgimento dei familiari e del caregiver
  • Attuazione del Piano di Azione
  • Verifica dei sotto-obbiettivi raggiunti

  • Monitoraggio dell’andamento del percorso
  • Tecniche di feedback personale
  • Uso di elementi di rinforzo
  • Avvio ai momenti di Coaching Time

⇒ Aumento del livello di Attivazione ⇒

Tabella 1

Conclusioni

L’obiettivo, sottolinea l’esperta oncologa dell’Ospedale S. Raffaele, è quello di fare in modo che malati e parenti riescano a trovare un equilibrio duraturo e sostenibile, per aumentare il loro benessere e aiutarli a riprendere a “vivere” attraverso gli hobby, la vita sociale e le attività di tutti i giorni. Si tratta, insomma, di rimettere al centro il paziente come persona con la sua vita, facendo passare in secondo piano il suo stato di malato. Interpretare il ruolo di Coach significa individuare, per ogni paziente, obiettivi specifici da raggiungere grazie ad un piano d’azione strutturato in modo tale che sia possibile raggiungerli.
«La tutela della salute, oggi più che mai, ha bisogno della condivisione di obiettivi sia all’interno di un team professionale, dove tutto deve essere ottimizzato, efficiente ed efficace, sia nella relazione di cura, necessariamente rappresentata dalla fiducia tra medico e paziente. La qualità di questo rapporto, infatti, significa adesione alle terapie e attuazione di comportamenti responsabili nei confronti della collettività», conferma Walter Ricciardi.

«Il Coaching rappresenta anche un importante cambiamento che permette un passaggio dalla cura al “prendersi cura”, e ciò avviene attraverso la scoperta delle proprie potenzialità fino ad allora inesplorate. Si tratta sicuramente di uno strumento moderno che può rappresentare una chiave per rendere più agevoli alcune evoluzioni che hanno bisogno di coesione intorno a un obiettivo. Una per tutti la promozione della salute che, attraverso il Coaching, è intesa non solo come educazione agli stili di vita corretti, ma come atteggiamento interiore che scaturisce dalla maturazione della consapevolezza del valore globale che la salute esprime».

Fattori da considerare in un intervento di Coaching con pazienti anziani

Nei Paesi occidentali per “anziano” si intende una persona di oltre 65 con una aspettativa di vita di circa 15,6 anni per l’uomo e 20 anni per la donna. Nel nostro paese gli ultrasessantacinquenni rappresentano il 22,6% della popolazione totale, in particolare le persone con età compresa tra 66 e 84 anni sono il 19,1% e quelle over 85 sono il 3,5%.

Quando il Coach comunica con la persona anziana è necessario che tenga presente anche lo stato di salute del coachee e la differenza tra un anziano in salute autonomo e creativo e un anziano sofferente, disabile o con problemi legati a malattie degenerative come la demenza o altre patologie invalidanti. Le modalità di relazione assumono, perciò, una grande importanza per la comunicazione con questo tipo di paziente, che potrebbe aver bisogno, per esempio in caso di problemi di udito, di vedere il movimento delle labbra per comprendere meglio ciò che viene comunicato dall’operatore. Pertanto è importante porre molta attenzione alla comunicazione verbale e non verbale, alla postura, alle pause, al tono della voce, in quanto spesso sono rallentati i ritmi legati all’elaborazione delle informazioni ricevute. Occorre ricordare che le persone anziane possono perdere le abilità cognitive, ma conservano quelle emotive. Pertanto, è necessario offrire fiducia e sicurezza evitando il rischio di “infantilizzazione” (come “dare del tu”).

L’autore

Giorgio Cavazzini

Giornalista Professionista

Bibliografia

  1. De Santi AM, Faliva C, Sbraga P, et al. Heartbeat & Life Skills. Dispensa per promuovere salute, comunicare in modo efficace, gestire lo stress e imparare a risolvere i problemi. CCM Ministero della Salute. 2016. Disponibile online su http:// www.heartbeat-iss.it. Data ultimo accesso 10-11-2018
  2. De Santi AM, Geiger G. 100 domande sul Coaching in sanità. SEEd, Torino. 2018
  3. De Santi AM, Simeoni I. I medico, il paziente e i familiari. Guida alla comunicazione efficace. SEEd, Torino. 2009
  4. Fielden S. Literature review: coaching effectiveness – a summary. NHS Leadership Centre, London. 2005. Disponibile online su https://www.cslireland.ie/images/NHS_CDWPCoachingEffectiveness.pdf. Data ultimo accesso 10-11-2018
  5. Indicatori demografici. Report 2017. 8 Feb 2018 https://www.istat.it/it/files/2018/02/Indicatoridemografici2017.pdf Data ultimo accesso 3-12-2018
  6. Sabatè E. Adherence to long-term therapies. World Health Organization. 2003

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