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Data Driven Healthcare

Data Driven Healthcare

Data di pubblicazione: 26 ottobre 2017

Big Data e IoT sono il futuro dell’healthcare, ma ci sono ancora ostacoli da superare

Solo qualche anno fa a dirlo si passava per visionari, ma oggi sono chiari a tutti gli enormi vantaggi ottenibili nell’healthcare grazie all’utilizzo sinergico di tecnologie informatiche come i Big Data (raccolta ed elaborazione massiva di dati, anche con tecniche di intelligenza artificiale) e la IoT (Internet of Thing, dispositivi e sensori remoti connessi a Internet).

Tuttavia, hanno cominciato a emergere con maggiore chiarezza anche alcune criticità, sia tecniche – in particolare sull’affidabilità della raccolta dati da dispositivi indossabili – sia di tipo, diciamo così, sociale,  con le prime prese di posizione sulla “privacy dei dati” e contro la “vendita dei dati personali alle cattive multinazionali”: fenomeno da non sottovalutare se non vogliamo ritrovarci a combattere con nuove tesi complottiste stile antivax o “Big Pharma”.

La fattibilità tecnologica

Negli ultimi due/tre anni in particolare, sono andate al loro posto molte tessere del puzzle che hanno permesso di trasformare l’ipotesi tecnologica di Big Data+IoT in una realtà concreta: per esempio, oggi sono disponibili servizi di memorizzazione su cloud a costi accessibili, che potranno fungere da “base” per ogni infrastruttura. Sono poi diventati operativi sistemi di analisi dei dati tramite algoritmi cognitivi, più noti come “intelligenza artificiale”; un esempio eclatante è il sistema Watson di IBM, il cui utilizzo nell’ambito della “medicina di precisione” – una disciplina basata sul presupposto che confrontando i dati genetici dei pazienti con le conoscenze a disposizione sulle malattie permette di ottenere diagnosi più accurate e terapie più efficaci – potrebbe avere un effetto dirompente.

Si potrà diagnosticare il cancro esaminando il DNA del paziente e il profilo genetico della forma tumorale, ridurre gli effetti collaterali delle terapie sapendo in anticipo, grazie al DNA del paziente, quali reazioni avrà ai vari farmaci, e semplificare le diagnosi sapendo dal DNA a quali malattie può essere soggetta una persona.

Altre tessere del puzzle finalmente disponibili sono le infrastrutture software dedicate alla ricerca medica (come le piattaforme ResearchKit di Apple e ResearchStack di Google) e, sul lato “client”,  svariati modelli di economici dispositivi indossabili dotati di vari sensori di parametri vitali: i cosiddetti “dispositivi wearable”. Essi sono diventati un vero e proprio fenomeno di moda, con numeri da capogiro: 19 milioni di apparecchi venduti nei soli USA quest’anno, con previsioni per il 2018 sopra i 100 milioni di pezzi. E in Italia siamo secondi solo agli USA come percentuale di possessori di questi dispositivi (con il 10,2%, contro il 12,2% degli USA e, per esempio, il 5,4% della Germania, terza in classifica).

Il problema dell’accuratezza dei dati

Ma proprio il successo dei “wearable” potrebbe rappresentare un fattore di rischio, più che un vantaggio, per la futura medicina basata su Big Data. Il problema, in sé, è semplice: questi apparecchi non sono dispositivi medici, nel senso “burocratico” del termine. Sono venduti per lo sport e il tempo libero, il che si traduce nel fatto che non sono stati sottoposti al processo di valutazione obbligatorio per gli apparecchi per uso medico, e che le loro misure non sono certificate.

In concreto: in caso di errore, nessuno risponde. E l’errore di misura, a quanto sembra, non è un evento così infrequente. Test eseguiti per esempio dal California State Polytechnic University su diversi esemplari di un famoso modello di rilevatore di battito cardiaco per il fitness hanno rilevato notevoli scostamenti rispetto alle misure eseguite con un elettrocardiografo certificato, e addirittura fra le misure di esemplari diversi dello stesso dispositivo.

Insomma, se dobbiamo usarli per contare i passi della nostra passeggiata in montagna va bene, ma se dalla misura dovesse dipendere la vita di una persona (esempio: controllo dell’insulina), forse due domande prima bisognerebbe farsele. Se poi milioni di misuratori imprecisi inviano dati errati ai database statistici, si rischia di invalidare totalmente il sistema.

Gli informatici, che da decenni trattano i dati, hanno un’abbreviazione illuminante per questo fenomeno: lo chiamano GIGO  (garbage in, garbage out), ovvero se i dati che inserisci nel sistema sono spazzatura, otterrai in uscita spazzatura. Fortunatamente, le aziende del settore hanno ben presente il problema, e si stanno muovendo: non solo sono già arrivati sul mercato i primi dispositivi wearable certificati, ma i colossi del settore (Apple e Google in primis) stanno lavorando sul problema ed è ragionevole supporre che presto saranno in grado di mettere a disposizione della clientela versioni certificate dei loro dispositivi e piattaforme software. E allora il puzzle sarà completo di tutte le tessere.

L’autore

Redazione

Team composto da professionisti in diversi settori, tra cui medico, scientifico, health affairs, digital technology, giornalistico.
L’obiettivo primario della redazione è quello di generare contenuti d’interesse, attuali e che possano favorire un aggiornamento su tematiche che spaziano in ambiti differenti.

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