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Alle radici della vita

Alle radici della vita

Scienziati di tutto il mondo lavorano alla creazione di una cellula artificiale, ovvero di un organismo elementare capace di mantenersi tramite metabolismo – il minimo indispensabile per essere considerato “vivente”. Vediamo gli ultimi annunci in questo campo di ricerca, e perché riprodurre in vitro una cellula artificiale può portarci a grandi progressi sulla comprensione del concetto di vita e, probabilmente, a capire come migliorare la natura.

Data di pubblicazione: 11 dicembre 2019

È possibile ricreare la vita in laboratorio?

Forse un giorno questo sarà possibile, ma siamo ancora ben lontani dal risultato. Il sogno di riuscire a creare la vita, di “essere come Dio”, accompagna l’uomo da millenni sotto varie forme, che si tratti dei riti di resurrezione degli antichi egizi, dei segreti degli antichi esoteristi o dei moderni miti letterari alla Doktor Frankenstein. Ma se per millenni si è trattato di un’aspirazione più o meno relegata al mondo della magia, della spiritualità e delle religioni, negli anni dal dopoguerra a oggi la scienza è entrata in campo pesantemente sull’argomento.

Naturalmente, la scienza procede per gradi, e quindi l’obiettivo sul quale si lavora da anni non è quello di creare un organismo vivente simile all’uomo, bensì quello di costruire un organismo base della vita: una cellula artificiale. La cellula è di per sé un’entità estremamente complessa, che racchiude tutte le funzioni tipiche della vita: si forma, cresce, comunica con le sue simili per via chimica, svolge compiti specifici, si moltiplica tramite DNA e muore.

Una cellula artificiale dovrebbe, idealmente, riprodurre tutte le funzioni di una cellula “naturale” o biologica. In realtà, allo stato attuale non siamo ancora riusciti a produrre cellule artificiali capaci di mimare tutte le funzionalità in gioco, e quindi si tende a definire come cellula artificiale un’entità in grado di riprodurre almeno una parte delle funzionalità delle cellule biologiche. Il minimo indispensabile potrebbe essere il fatto di mantenersi tramite un processo di metabolismo. Queste cellule artificiali vengono in genere ottenute utilizzando membrane (polimeriche oppure organiche) con al loro interno materiali biologicamente attivi.

Una lunga storia di parziali successi

La cellula organica venne scoperta solo nel 1665, e si dovette aspettare il 1839 perché si facesse strada la teoria per cui la cellula era la base, dal punto di vista strutturale e funzionale, di tutti gli organismi viventi.

Le prime cellule artificiali invece vennero realizzate negli anni ‘60 dal gruppo del ricercatore canadese Thomas Chang, ed erano formate da membrane semipermeabili costituite da polimeri e proteine1. Erano relativamente grandi (dell’ordine dei micron) e al loro interno contenevano diversi componenti, come enzimi, emoglobina, materiali magnetici, proteine ed altre cellule organiche.  Con il progredire della tecnologia, si costruirono cellule artificiali più piccole, a livello di nanometri, e si riuscì a usarle come vettori di geni, vaccini, ormoni e altre sostanze, nella cura di specifiche malattie. Uno dei primi utilizzi fu nel settore della emoperfusione nella quale le cellule artificiali si dimostrarono più efficienti delle tecniche convenzionali. In realtà, il primo scopo per cui furono realizzate le cellule artificiali era quello di sostituire le cellule organiche nelle attività di ricerca: esse infatti erano più robuste e meno complicate, rendendo quindi più semplice investigare sul loro comportamento senza temere che morissero alla prima manovra sbagliata. La sostituzione delle cellule organiche su specifiche funzioni extra laboratorio era solo un secondo obiettivo, che divenne predominante in seguito.

Negli anni ‘90 si riuscì a produrre una cellula capace di svolgere le funzioni base dei globuli rossi, e a metà anni ‘90 cellule artificiali con incapsulato materiale biologico vennero usate nel trattamento sperimentale del diabete.

Di lì si procedette più rapidamente. Nel 2000 venne annunciata la prima cellula dotata di un genoma artificiale, creata da un gruppo di ricercatori capitanati da Craig Venter2. Nel 2010 lo stesso gruppo annuncia che ora la loro cellula è capace di autoreplicarsi, secondo il programma genetico deciso degli scienziati.3

Si è trattato di una scoperta che ha cambiato le carte in tavola: dimostrava che sarebbe stato possibile costruire cellule da sostituire a quelle biologiche, e che creare la vita in laboratorio a partire da sostanze inanimate non era più un sogno, ma un risultato, se non a portata di mano, comunque non impossibile.

A che punto siamo

Da quel fatidico 2010, la ricerca sulle cellule artificiali ha avuto un notevole impulso, e si è alquanto differenziata per approccio e materiali usati.

A grandi linee, i vari gruppi di ricercatori classificano le cellule sulle quali lavorano in cellule artificiali tipiche e atipiche. Con le cellule “tipiche” si cerca di replicare nel modo più fedele possibile la maggior parte delle strutture e dei processi tipici della cellula organica. Questo tipo di cellule permetterebbe di capire meglio la vita cellulare, di trovare il modo di mettere in contatto il mondo vivente con quello non vivente, di aggiungere alle cellule funzioni non presenti in natura, e infine di individuare una teoria plausibile sull’origine della vita, che rappresenta ancora un grosso punto di domanda. In definitiva, i ricercatori impegnati a produrre cellule artificiali “tipiche” puntano a farne qualcosa di vivo, ovvero capace di automantenersi, riprodursi, evolversi e morire. E per fare ciò bisogna costruire cellule dotate dei tre componenti fondamentali per riprodurre le funzioni vitali: una membrana semipermeabile che protegga le varie parti della cellula dall’ambiente esterno, permettendo però il passaggio di determinate sostanze e di energia; un DNA o RNA che trasporti le informazioni genetiche, sovrintenda alle dinamiche della cellula e le dia la capacità di evolversi; e una struttura che permetta il metabolismo, ovvero faccia arrivare energia alle varie parti della cellula in modo che possa mantenersi, rinnovarsi ed elaborare autonomamente informazioni.4

Al momento nessuna cellula artificiale possiede tutte queste caratteristiche, ma ci sono indicazioni che fanno pensare che il traguardo non sia lontano.

Per produrre le cellule, si usano due approcci diversi: o si prende una cellula organica e si riduce il suo DNA al minimo indispensabile (o addirittura la si svuota del DNA per sostituirlo con uno sintetico), oppure si parte da zero, costruendo la cellula mettendo insieme materiali biologici e non.4

Per quanto riguarda le cellule artificiali “non-tipiche”, invece, si tratta in genere di materiali artificiali creati per svolgere una o più funzioni delle cellule organiche. Per questo vengono spesso chiamate cell mimics, ovvero imitatrici, e in effetti imitano anche alcune caratteristiche della superficie, forme, o morfologia della cellula organica.5

Gli sviluppi

Gli annunci più recenti arrivano dall’Istituto di Tecnologia di Tokio, dove l’equipe guidata da Samuel Berhanu è riuscita a dotare le cellule artificiali della capacità di svolgere il processo di fotosintesi, tramite inserimento di specifiche proteine nella membrana. Grazie alla fotosintesi, la cellula artificiale è in grado di autosostentarsi. Durante gli esperimenti, inoltre, la cellula si è comportata come quelle organiche, anche se a quanto sembra essa non è ancora in grado di produrre in proprio tutte le sostanze che le servono per sopravvivere. Tuttavia, il passo avanti è netto. Fra l’altro, questo tipo di cellula potrebbe aiutare a illuminare un altro lato oscuro delle nostre origini: ovvero come si è arrivati ad avere i primi organismi unicellulari e come si è passati dalla fotosintesi (regno vegetale) a modi più sofisticati di procurarsi energia (regno animale).6

La prossima frontiera, a questo punto, sarà di far comunicare le cellule artificiali: prima fra loro, poi anche con le cellule organiche. Anche qui, non si tratta di una cosa da poco. Per parlare fra loro, le cellule artificiali possono usare scambi di tracce chimiche, organiche o artificiali, seguendo una lingua, un vocabolario che i ricercatori possono costruire su misura, in base alle proprie esigenze. Per comunicare con le cellule organiche, invece, bisogna prima capire la lingua da esse usata, e imparare a parlarla. Una volta raggiunto questo risultato sarà possibile creare organismi pluricellulari, con un ulteriore salto di qualità. La creazione di organi artificiali con caratteristiche simili a quelle possedute da quelli organici è solo la prima di una lunga serie, che passa attraverso la cura di malattie rare e vari altri utilizzi pratici.7

Usi pratici: i prossimi problemi da risolvere

Anche dopo gli annunci sull’implementazione della fotosintesi nelle cellule artificiali, che ci avvicina molto ad avere un metabolismo artificiale autosostenibile, rimangono vari altri problemi da risolvere per la costruzione di una vera e propria cellula eucariota vivente. Abbiamo già accennato al problema della comunicazione fra le cellule artificiali e le forme organiche, cellule, batteri eccetera. A un livello più basico, bisogna far sì che le cellule reagiscano in modo adeguato agli stimoli dati dall’ambiente esterno. A partire dal “sentire” l’ambiente tramite scambio di segnalatori chimici, e dal muoversi per esempio verso sostanze attrattive4. Dettaglio non trascurabile: anche dare alle cellule la capacità di movimento è un problema ancora non del tutto risolto, anche se sono già stati prodotti elementi sintetici in grado di spostarsi in modo controllato. Infine, uno dei problemi più grossi da risolvere è il fatto che le cellule artificiali, per essere davvero simili a quelle organiche, dovrebbero essere in grado di riprodursi, in modo da mantenere per esempio una popolazione stabile.4

Ora, si è già riusciti in laboratorio a creare aggregati sintetici in grado di crescere e dividersi come fanno le cellule organiche, tuttavia i sistemi di autoregolazione estensiva mostrati dalle cellule in natura sono ancora al di là delle nostre conoscenze. Sta di fatto che la capacità di riprodursi è comunemente ritenuta un punto fondamentale per considerare “vivente” un coacervo di materiali organici o sintetici, e quindi risolvere questo problema ci porterà davvero a poter dire di avere ricreato la vita. Cellule capaci di avere un metabolismo, crescere, riprodursi in modo controllato, reagire all’ambiente, comunicare con altre cellule dello stesso tipo oppure organiche, svolgere funzionalità “operative” come per esempio il trasporto di farmaci, e morire una volta assolto il loro compito, saranno a tutti gli effetti “vive”, nel senso classico del termine. Esse potranno essere “plasmate” per compiti specifici, dalla biomedicina8 alle scienze ambientali – già si pensa a cellule in grado di intervenire per eliminare dall’ambiente sostanze inquinanti. E potranno a loro volta essere usate per studiare in modo sperimentale e preciso i principi dell’evoluzione genetica, per capire insomma le fasi della comparsa e dell’evoluzione della vita sul pianeta. Una volta che la scienza avrà raggiunto questo risultato, la parola potrà tornare a filosofi e teologi che dovranno ridefinire e riadattare una lunga serie di concetti etici, convinzioni millenarie, credenze religiose e via discorrendo.

L’autore

Gianluigi Bonanomi

Giornalista professionsita, con expertise in ambito technology e digital.

Bibliografia

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