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La statistica per il medico: l’interpretazione dei dati epidemiologici

La statistica per il medico: l’interpretazione dei dati epidemiologici

Come stabilire se c’è un legame tra i fattori di esposizione e una patologia? Fondamentale è capire la discussione epidemiologica.

Data di pubblicazione: 20 ottobre 2017

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L’obiettivo di uno studio epidemiologico ed in particolare degli studi sui fattori di rischio, è quello di stabilire un’inferenza di causalità a livello di popolazione, tra questi fattori e la patologia, oltre che di quantificarne i rischi. A causa della mancanza di randomizzazione, negli studi epidemiologici è importante che il ruolo della distorsione, del confondimento e del caso sia accuratamente valutato prima di poter formulare ogni inferenza di causalità tra esposizione e patologia.

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La causalità in epidemiologia: una nota importante

Ogni volta che si parla di causalità nel contesto di studi epidemiologici, ci si riferisce ad una specifica accezione del termine, non esportabile al di fuori dell’epidemiologia. In tal senso, la causalità definisce l’aumento del rischio di una data patologia a livello di una popolazione. Deve essere infatti ben chiaro che la causalità epidemiologica nulla può dire sulla causa di malattia del singolo caso, che potrà invece essere o meno stabilita solo applicando i metodi della diagnostica clinica.

 

I termini più frequenti impiegati nella discussione epidemiologica

Il bias
Il bias, o errore sistematico, deriva generalmente da imprecisioni nel disegno di uno studio non sperimentale e nella raccolta dei dati. Il bias di selezione comporta differenze sistematiche nell’esposizione oggetto dello studio, tra coloro che vengono selezionati per essere inclusi nello studio e coloro che non vengono selezionati.
Il bias di informazione comporta differenze sistematiche nella misurazione dell’esposizione in oggetto tra i gruppi di confronto e comprende il bias di ricordo e di intervista. Laddove qualità e dettaglio delle informazioni raccolte risultino eterogenee, il confronto tra casi e controlli non sarà adeguato.

Il confondimento
Il confondimento si riferisce all’effetto di una variabile estranea, legata sia all’esposizione che alla malattia, che può spiegare in tutto o in parte l’apparente legame tra esposizione e patologia in un determinato studio. Solo dopo che le potenziali variabili di confondimento sono state identificate e misurate è possibile valutare il confondimento stesso e, di conseguenza, l’analisi dovrà tener conto di tali variabili.

Gli intervalli di confidenza
Negli studi epidemiologici, il ruolo del caso viene valutato per mezzo di test di significatività, nonché del calcolo degli intervalli di confidenza.
Se una particolare stima di rischio è statisticamente significativa a un livello definito (usualmente al 95%, ammettendo un margine di errore casuale del 5%), il caso può essere escluso come probabile spiegazione dei risultati, con maggiore o minor margine di errore. Il livello di significatività comunemente adottato è di p<0.05, corrispondente a un intervallo di confidenza (IC) del 95%. Quando l’IC include l’unità, il risultato non è significativo. Quando entrambi i limiti di confidenza (quello inferiore e quello superiore) sono sotto o sopra l’unità, il risultato è significativo nell’indicare rispettivamente una riduzione o un eccesso di rischio relativo (RR).

Una volta esclusi la distorsione, il confondimento e il caso, la forza dell’associazione è normalmente valutata dagli epidemiologi mediante l’impiego di una serie di ulteriori criteri.

 

I tradizionali e discussi criteri di Hill

I principali criteri, che per alcuni conservano una certa utilità di tipo pratico, rispondendo ad esigenze logiche e di ragionevolezza (Hill, 1965; US Department of Health, 1964), sono i seguenti:

  • forza del nesso. In generale, più elevata è la stima del rischio, minore è la probabilità che il risultato possa essere spiegato con la distorsione, il confondimento o il caso. In linea di massima, le associazioni forti (in base al valore del RR) sono ritenute causali, poiché è poco verosimile che tali associazioni derivino soltanto da distorsioni o da errori sistematici. D’altra parte, è molto difficile, per non dire impossibile, definire una relazione di causalità attraverso studi epidemiologici osservazionali che abbiano rilevato rischi relativi dell’ordine di 1.2-1.5 o più in generale inferiori a 2 (MacMahon e Trichopoulos, 1996);
  • La plausibilità di un nesso causale è notevolmente maggiore se risultati simili vengono descritti in studi epidemiologici condotti su popolazioni diverse utilizzando vari schemi di studio. L’esistenza di una coerenza interna è uno degli argomenti di base per stabilire la causalità di un’associazione. Quando non vi sia associazione significativa nella globalità della popolazione, ma soltanto in alcuni sottogruppi (mentre, evidentemente, altri sottogruppi mostrano associazioni in senso inverso), è necessario essere scettici nell’interpretare uno studio. In linea generale, soltanto in presenza di un’associazione riferibile alla globalità della popolazione esaminata, sarà consentito passare alle analisi di sottogruppi e sempre sulla base di ipotesi biologiche a priori. Le associazioni casualmente emerse a posteriori in uno studio devono invece restare nel campo delle formulazioni di ipotesi e non in quello delle inferenze di causalità;
  • effetto dose-risposta. Se il rischio di malattia aumenta all’aumentare dell’esposizione, un’interpretazione causale del nesso diviene più plausibile. La presenza di gradienti dose-rischio e durata-rischio rappresenta quindi una forte evidenza a favore della causalità di un’associazione. Occorre ricordare, però, che è sempre necessario tenere separati i due fattori della dose e della durata, perché il loro effetto biologico è spesso quantitativamente molto diverso;
  • sequenza temporale. L’esposizione deve precedere lo sviluppo della malattia. Durata dell’esposizione, tempo dalla prima esposizione (latenza) e dall’ultima esposizione (recenza) devono essere considerate separatamente in uno schema patogenetico globale;
  • plausibilità biologica. È necessario chiedersi, in termini rigorosi, se il legame tra esposizione e patologia abbia senso dal punto di vista biologico, alla luce di ciò che le conoscenze scientifiche ci dicono sulla malattia. L’osservazione può suonare banale, ma acquista immediatamente valore considerando che sono stati pubblicati numerosi studi nei quali le associazioni tra determinati fattori di rischio e l’insorgenza di alcune malattie, pur raggiungendo la significatività statistica, lasciano assai perplessi circa il loro significato biologico. È poi indispensabile verificare se il legame è compatibile con le prove sperimentali. Purtroppo, le informazioni necessarie per giudicare la plausibilità biologica sono limitate per molte patologie.
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L’autore

Prof. Carlo La Vecchia

Professor of Medical Statistics and Epidemiology
Dept. of Clinical Sciences and Community Health Università degli Studi di Milano

Bibliografia

  • Trichopoulos D, Lipworth L, Petridou E, Adami H-O (1997). Epidemiology of cancer. In: De Vita VT Jr, Hellman S, Rosenberg SA, editors, Cancer: Principles and Practice of Oncology, 5th Philadelphia: J.B. Lippincott Co.
  • Hill AB (1965). The environment and disease: association or causation? Proc Soc Med 58: 295-300.
  • US Department of Health, Education, and Welfare (1964). Smoking and Health: Report of the Advisory Committee to the Surgeon General. Washington, DC: US Government Printing Office, Public Health & Service Public.
  • MacMahon B., Trichopoulos D., 1996. Epidemiology. Principle and Methods, second ed. Little Brown and Company, Boston.

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